31/01/09

IL PENSIERO IN ORIENTE

"IL PENSIERO IN ORIENTE"

La filosofia occidentale ricerca una motivazione all'esistenza delle cose. Quella orientale no. Gli orientali considerano piuttosto stravagante questa concezione di spiegare il mondo fenomenico. La loro preoccupazione è, piuttosto, quella di elevare lo spirito, affinchè realizzi se stesso. Il perché delle cose, per loro, deriva necessariamente da un'illusione di fondo, in cui questo è prigioniero, per cui la sua realizzazione è detta anche liberazione. A livello dell'Assoluto non ci sarebbero più perchè, la questione non si porrebbe neanche in quanto non esisterebbe più l'io separato, causa, appunto, di illusione.

Passerò ora ad analizzare alcune dottrine che possono essere significative al fine di comprendere in quale direzione si muove il pensiero orientale.

a) Lo Sciamanismo.

a) Lo Sciamanismo.

Chiamato anche Sciamanesimo, il termine significa "tecnica dell'estasi".

Sciamano deriva dal tunguso "saman" e lo si ricollega al sanscrito sramana e al pali samana, che significano "uomo ispirato dagli spiriti".

Lo sciamano è un "agente di potere", uno "stregone", che esiste in funzione di un gruppo, bisognoso di un individuo che funga da mediatore col mondo soprannaturale degli spiriti.

Dove lo spirito di clan va sempre più sgretolandosi, anche lo Sciamanismo di conseguenza scompare. Resiste in popolazioni particolari, come per esempio i Lapponi, nelle tribù ancora a uno stadio primitivo, ecc.

Dovunque esista questa pratica possiamo rilevare, comunque, caratteristiche superficiali e strutture profonde costanti.

Ciò che accomuna tutti gli Sciamani del pianeta è il tema del viaggio interiore, che compiono attraverso una crisi esistenziale, che li porta a scoprire nuovi "mondi visionari" e a risvegliarsi a "ordini non comuni della realtà".

Si tratta di una pratica antica quanto l'uomo, che non ha delle origini ben precise. Attraverso i secoli lo Sciamanismo è rimasto vivo, adattandosi di volta in volta alle diverse culture.

Il Comunismo non lo ha potuto vincere direttamente, perché si tratta di una tecnica materialista, senza clero, senza luogo di culto, rispondente ai bisogni della propaganda ateista.


Va quindi concepito come sopravvivenza clandestina di credenze ancestrali e lo testimoniano numerosi documenti preistorici del paleolitico.

b) Il Taoismo.

b) Il Taoismo.

In cinese si dice Tao Chiao, ed è una delle tre forme religiose della Cina tradizionale. Le altre due sono: il Confucianesimo (Ju Chiao) e il Buddismo Zen (Fu Chiao).

E' chiamato anche Tao Chia, per indicare la Scuola taoista che segue gli insegnamenti di Lao Tze e Chuang Tzu e che risale al 4°sec. a.C., mentre il primo termine si riferisce alla Chiesa taoista, un'organizzazione para religiosa che data soltanto dal 2°sec. d.C..

Entrambe le forme si ispirano alla tradizione religiosa della Cina antica, differenziandosi però nel modo di utilizzarla. La Scuola taoista l'ha demitizzata, mentre la Chiesa ne ha conservato le credenze mitologiche, e le pratiche magiche.

L'idea madre della saggezza cinese è che tra le vicende dell'uomo e quelle del cosmo fisico vi sia una correlazione molto stretta, una simmetria dinamica, tra mondo mentale e mondo esteriore, governata da un principio universale chiamato Tao (i greci avrebbero detto Logos, noi diremmo Legge di Natura), dotato di una sua energia vitale, chiamata "Te".

Meta ultima del Taoismo è raggiungere uno stato di perfetta unità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'essere e il non essere. Uno stato di serenità, di pace suprema, in cui non c'è distinzione fra le cose e in cui l'io è abolito.

Per raggiungerlo bisogna arrivare a comprendere il Tao. Non serve a nulla, però, avvicinarlo in modo astratto e razionale, bisogna procedere per via intuitiva, per esperienza diretta. Bisogna vivere il Tao.

Vi sono due strade per far questo: quella del Ming, o della "luce celeste", e quella del Ching, detta anche "la via oscura". La prima è detta anche Wu Wei, ed è il principio d'azione del saggio. Consiste nel rispettare la vita e i ritmi naturali dell'uomo con l'universo. In generale lo si traduce con "non agire"(da Wu che significa non e Wei atto, sforzo, compiere), ma questa traduzione è in realtà molto imperfetta, perché suggerisce l'idea di passività, mentre il Taoismo non predica la non curanza, ma l'impegno totale degli esseri nella vita e la perfetta azione. Parole come, non ingerenza e abbandonare la presa, sono più adeguate.

Il Wu-Wei rinvia alla condizione di non desiderio, alla serenità che attenua le tensioni ed è un fattore di realizzazione. E' un astenersi dalle attività contrarie alla natura, un agire corretto, spontaneo, libero, in piena armonia.

Il saggio cinese è nel mondo, partecipa totalmente al reale, cerca di vivere pienamente e in modo consapevole l'istante presente. Quello indiano, invece, è assente dal mondo, lo considera come nulla.


L'altra via, quella del Ching, è la via della quiete e della contemplazione. Consiste nel "badare al proprio corpo" e si presenta come una via di risveglio, le cui due facce sono la rivelazione e la liberazione, ma i taoisti immaginano sia una via incompleta. Più facile perché la si può determinare, ma che ha realmente sbocco solo se si fonda sulla luce del sole del Ming.

Quando i primi gesuiti arrivarono in Cina tentarono di sostituire al concetto di Tao quello di Dio, ma non vi riuscirono. Primo perché il concetto di Tao è molto più ampio, inoltre esso è strettamente impersonale.

Quasi tutte le mistiche orientali poggiano sul senso di integrazione tra l'essere e il non essere, l'uomo e la realtà ultima. Tuttavia,

nel Buddismo e nell'Induismo l'accesso all'unità passa attraverso varie percezioni, vari gradi. Per i taoisti, nulla di simile. Tutto accade su uno stesso piano. In ciò, hanno una visione più semplice e meno intellettuale delle altre filosofie.

Perché, infatti, dovrebbero esistere piani diversi, quando il Tao è dappertutto?

c) Il Sufismo.

c) Il Sufismo.

E' l'aspetto esoterico dell'Islamismo. Il termine deriva da suf, che significa pelo di cammello e lana grezza, dal fatto che i seguaci di questo movimento spirituale indossavano un saio ricavato dai peli di cammello e una caratteristica mantella di lana bianca.

Il Sufismo sorse all'incirca nell' VIII sec. d.C., data in cui cominciarono ad apparire i primi gruppi di asceti. Infatti, questa religione è formata da una serie di esperienze personali, tendenti a favorire un riavvicinamento dell'essere alla realtà estrema. Suo scopo è quello di annientarsi in essa.

L'esperienza dell'unione con Dio, propria dei sufi, ne faceva degli irregolari da emarginare, perché essi arrivavano a identificarsi con Dio stesso. Ecco perché, all'inizio, vivevano una vita eremitica e solo più tardi sorsero anche delle confraternite.

Il Sufismo subì influssi diversi: dal neoplatonismo dei greci, alle sette manichee, gnostiche (1) e zoroastriane. I diversi metodi esistenti derivano dall'esperienza di un grande maestro storico, iniziatore di una confraternita.

Tuttavia, sebbene i metodi iniziatici siano molti, la finalità è comune: condurre dall'individuale all'universale, dal mondo finito all'infinitudine. L'intento è quello di portare l'uomo allo stato di santità, di modo che arrivi ad avere la "visione del cuore". Lungo tutto il suo itinerario spirituale il discepolo cerca di acquisire le virtù che devono operare in lui la trasformazione e, per far questo, segue rigorosamente gli insegnamenti di un maestro.

I quattro punti su cui questi si basano sono:
-Invocazione;
-Meditazione;
-Difesa del cuore;
-Preservazione del legame col maestro.

L'invocazione è la costante preghiera del cuore volta a Dio per non dimenticarlo e ha l'effetto di fortificare l'animo. La meditazione ne è un necessario complemento: predispone a ricevere la certezza di Dio e trasforma le immagini mentali che sfuggono alla presa della coscienza, ma sono percepite dall'occhio del cuore. Poi vi è la difesa del cuore, importantissima perché consente di mantenere sempre vivo lo stato di illuminazione cui si è giunti mediante le due tecniche precedenti. Infine, il legame col maestro, che rimane anche dopo la morte e che comporta il discepolo obbedisca a tutti gli ordini, anche a quelli più insensati o apparentemente impossibili.

Funzione essenziale della via è quella di insegnare all'uomo a staccarsi dal suo io, causa principale di illusione e sofferenza. Quando arriva a cancellarlo, il cuore si colma di certezze e può adempiere alla missione ricevuta da Dio: diventare un suo intermediario nella creazione, una porta aperta per gli altri verso la Verità.

I sufi chiamano questa missione il mandato, o deposito (amana), lo considerano il fine supremo a cui tendere e dicono sia nell'interiorità più profonda che si arriva a conoscersi veramente, sapendo di non essere nient'altro che Allah.



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(1) Religiosità gnostica: era come il sottosuolo spirituale dell'Iran, in stretto contatto con le grandi tradizioni induiste e buddhiste, specie quelle della scuola yoga.

d) Culti minori.

d) Culti minori.

* SCINTOISMO: E' la religione giapponese.
Di antichissima origine, è molto più di un credo. E' tutto l'insieme di tradizioni, atteggiamenti e idee, del popolo giapponese, che si manifesta nella venerazione dei Kami (spiriti di natura). L'uomo, secondo gli scintoisti, è un Kami in potenza e, per questo, la sua natura è buona. Questa fede è tanto viva e forte che, in Giappone, tutte le altre forme di culto sono delle minoranze esigue. Anche il Buddismo rientra fra queste e, anzi, molti buddisti sono anche scintoisti.

* ZOROASTRO: Chiamato anche Zaratustra, questo profeta, vissuto si dice nel 6°sec. a.C., predicò la dottrina del "duplice giudizio" (che entrerà a far parte anche del patrimonio religioso occidentale) secondo cui il Dio supremo Ahura Mazda, sdoppiato nei due principi Ormuzd e Ariman (dio del bene e dio del male), giudicherà l'operato dell'uomo e, alla fine dei tempi, instaurerà un mondo totalmente rinnovato (una specie di resurrezione cosmica). Ogni singolo uomo deve prendere posizione, auto determinarsi verso il bene e contro il male. La prospettiva zaratustriana sul futuro fa leva, infatti, sulla libera scelta dell'uomo da cui dipende, in sostanza, il corso delle cose venture.

IL PENSIERO INDIANO

"IL PENSIERO INDIANO"

L'India, nel corso delle ere, ha messo a punto innumerevoli tecniche di trasformazione interiore, adatte ad ogni tipo di sensibilità. Come al solito, esporrò solamente quelle più utili alla nostra trattazione.

Prima, però, occorre sottolineare come la tradizione spirituale indiana non sia staticamente legata al passato: al contrario, essa è una realtà dinamica che, di generazione in generazione, si perpetua e si rinnova, dando vita a nuovi germogli. Infatti, testi recenti, come quelli di Ramakrishna, o di Ramana Maharshi, appartengono oggi alla tradizione indiana, quanto le opere di Patanjali, o di Shankara.

Inoltre, l'India, al contrario di quanto accade nella cultura occidentale, non è mai stata teatro di rivalità o divorzio fra religione, filosofia, scienza, diritto, psicologia, ecc., e, per quanto riguarda le fonti storiche, si preoccupa pochissimo della paternità dei grandi testi tradizionali (di essi ciò che conta è il contenuto); difatti, manca completamente anche di annuari, il che rende difficile definirne lo sviluppo storico, per il quale si ricorre a documenti paralleli dei paesi limitrofi, o di popolazioni invasori.

a) L'Induismo.

a) L'Induismo.

Già parecchi secoli prima dell'era cristiana, l'India era un meraviglioso paese in cui vi fioriva un'elevata civiltà. Gli antichissimi inni dei "Veda", i testi dei "Brahmana" e delle "Upanishad", erano il frutto delle meditazioni di generazioni e generazioni di saggi. Era infatti un costume assai diffuso, in quel paese, che gli uomini dedicassero la propria esistenza a cercare di risolvere i problemi più importanti della vita umana: per quale fine siamo stati creati? Che cosa ci attende dopo la morte? Forse nuove incarnazioni? E quale importanza hanno per l'uomo i dolori e le gioie della sua vita?

Per trovare una risposta a queste domande, moltissimi uomini trascorrevano gran parte delle loro giornate raccolti in profonda meditazione. Osservando le vicende della vita umana, erano giunti alla convinzione che l'unica parte dell'uomo degna di considerazione fosse lo spirito, mentre il corpo un fastidioso fardello.

Quelli più convinti di queste verità si proposero di soffocare tutti i propri sentimenti e tutte le esigenze del proprio corpo. Pensavano che allora lo spirito, non più distratto da preoccupazioni terrene, potesse trovare le grandi risposte. E di risposte ne trovarono molte...

LA RELIGIOSITA' INDIANA non costituisce una dottrina uniforme, bensì un complesso di idee religiose che vanno dalla superstizione alla mistica più elevata. L'assenza di fonti storiche, tipica in India, ne rende difficile definire la storia; tuttavia, gli studiosi sono concordi nell'affermare che essa si suddivida in tre fasi: Vedismo, Brahmanesimo e Induismo vero e proprio. Ognuna di esse, però, non costituisce una distinzione netta, piuttosto uno sviluppo della precedente.

Nella prima fase, che si colloca approssimativamente dal 1500 al 900 a.C. (più o meno in concomitanza con le invasioni ariane) l'interesse dominante è per i testi sacri dei Veda, cui si tributava una venerazione assoluta (non a caso molti storici affermano siano stati composti proprio in questo periodo). Nella seconda, invece, (900-500 a.C.circa) questo si spostò alla classe dei Brahmani, i quali si imposero come casta dominante per la loro funzione di custodi della parola sacra trasmessa dai Veda. La terza, infine, (che va dal 500 a.C., circa, fino ad oggi) è caratterizzata dall'insorgere di movimenti rinnovatori, come il Buddhismo e il Giainismo, che si rivoltarono contro l'esteriorità religiosa della casta sacerdotale, la cui supremazia cominciò a incrinarsi.

Nonostante queste differenze, comunque, i principi fondamentali, della religiosità indiana, sono sempre stati e sono tuttora questi:

1) la credenza nel samsara (sanscrito: "scorrimento circolare"), cioè nella trasmigrazione delle anime soggette alla legge del Karma (legge di casualità), che, a seconda degli atti compiuti in vita, impone di rinascere ancora, nella forma che più ci si è meritati.
2) la credenza nella Maya (l'illusione), che tiene nascosta, come un velo, la Realtà suprema agli uomini.
3) la credenza nella Liberazione (da maya), cioè nell'unione dell'anima individuale (atman o jiva) con l'anima del mondo (Brahman). Secondo i Veda, infatti, l'essenza della realtà è Brahman, un principio impersonale, al di là del tempo e dello spazio, da cui tutto deriva e a cui tutto tende.

Ciò che tiene separato l'atman da quest'ultimo è Maya, da cui è possibile liberarsi raggiungendo lo stato di Moksa (liberazione dal vincolo terreno), con cui si sfugge anche alla ruota delle rinascite. Colui che intraprende questo cammino, isolandosi dal mondo, viene chiamato samana e l'illuminazione che raggiunge è anche detta Sat-Cit-Ananda, cioè essere-coscienza-beatitudine, le tre qualità del divino.

LE STRADE PER ARRIVARE ALLA LIBERAZIONE che si sono sviluppate in India attraverso i secoli, sono molte; l'Induismo, come si è detto, non è un fenomeno uniforme, ma piuttosto un pullulare di sette, tutte, comunque, legate ai principi di cui sopra.

Alla fine del periodo vedico, i brahmani si dettero molto da fare per commentare e rielaborare la dottrina insegnata dai Veda. Nacquero così molte scuole, di pensiero filosofico, con l'intento di dare una giusta interpretazione delle sacre scritture, che, col tempo, si organizzarono in sei grandi correnti, definite ortodosse nella misura in cui ammettevano l'autorità dei Veda.

Nel complesso questi metodi, o cammini, non si escludono a vicenda: si potrebbero paragonare ai vari tipi di cartine geografiche che è possibile tracciare per uno stesso territorio, le quali, pur essendo differenti, presentano lo stesso paese visto da angolature diverse.

I sei Darshana (così sono chiamati dagli indù) sono: Samkhya; Yoga; Vedanta; Mimamsa; Vaisesika; Nyaya. I primi tre sono i piu importanti, costituiscono le colonne portanti del pensiero indiano; per cui li esamineremo più da vicino.

Samkhya, il più antico (6° sec. a.C.), risulta essere strettamente connesso allo Yoga (infatti le due scuole sono legate fra loro) e ha una visione dualistica della realtà, che considera costituita da purusha (principio cosciente, ma passivo) e prakriti (principio incosciente, ma attivo) dalla quale poi, derivano le tre guna: tamas, rajas e sattva, costituenti il mondo manifesto (riprenderemo questo discorso più avanti).

Diversa è, invece, la prospettiva del Vedanta, che ha una visione monistica della Realtà. Fu Shankara (8°sec. d.C.) la figura più illustrte, considerato il capostipite della scuola, secondo cui la dualità e la molteplicità sono solo apparenze illusorie (maya) dietro cui si cela la Verità (il principio supremo del mondo, il Brahman). Il "Sè", l'atman, non risulta, quindi, essere staccato da quest'ultimo; questa divisione sarebbe frutto di ignoranza, di una conoscenza inferiore, primo gradino verso la conoscenza suprema, in cui, appunto, atman e Brahman non appaiono disgiunti, ma in pura unità.

Per quanto riguarda lo Yoga, invece, c'è da dire che la pratica di questa disciplina, almeno a giudicare dai ritrovamenti degli scavi archeologici effettuati nella valle dell'Indo, è molto antica e, anche se è andata trasformandosi a seconda delle diverse influenze di pensiero, caratterizzanti le diverse epoche storiche, nel suo nucleo è rimasta inalterata. Fu Patanjali, nel 5°sec. d.C., a sistematizzarne la dottrina negli Yoga sutra, operando una felice sintesi di tutte le teorizzazioni precedenti. Egli fu in grado di proporre un sistema che, nello stesso tempo, riprendesse e superasse la filosofia Samkhya.

Letteralmente la parola significa "unione"
, "legame", e sta a indicare sia il concetto di liberazione dai legami del mondo, sia il conseguimento dell'unione di tutte le forze e sfere spirituali appartenenti all'uomo. Yoga, infatti, è il metodo attraverso cui si arriva a ottenere il dominio di se stessi, di tutte le proprie energie, che possono essere così guidate nella direzione desiderata, cioè verso la Liberazione. Vi sono otto livelli per arrivare a conseguire ciò, suddivisi in due fasi: la prima, quella dello Hata-yoga, comprende i primi cinque, la seconda, invece, del Raja-yoga, comprende gli ultimi tre. Ognuno di questi otto gradini porta a una presa di coscienza sempre maggiore, con relativo controllo, di una parte del proprio essere. Si va dall'involucro corporeo, per arrivare a quello mentale e, infine, spirituale.

Il primo livello, tra l'altro, comprende l'osservanza di 5 precetti etici, molto simili a quelli giainisti e buddisti, mentre gli ultimi tre riguardano la meditazione e sono: dharana, contemplazione; dhyana, meditazione vera e propria; infine samadhi, illuminazione.

Oltre a queste scuole filosofiche, fiorirono in India altre scuole, di tipo teistico, che si raccolsero in tre grandi correnti: Visnuismo, Shivaismo e Sakhtismo.

Queste si svilupparono grazie all'apporto di nuove opere filosofiche, redatte e composte dal 4°sec.a.C.in poi, che andarono incontro all'esigenza della popolazione di sentirsi più vicina ai testi sacri, fino ad allora rimasti prerogativa assoluta della casta dei Brahmani.

Queste opere sono i Tantra e i poemi epici. In particolare il Mahabarata risulta essere molto importante, poichè, grazie al sesto canto di quest'opera (Bhagavad Gita), si andò avviando, in India, una riforma spirituale, che portò al formarsi dei nuovi yoga:

- Karma-yoga,
- Jana-yoga e
- Bhakti-yoga,

i quali ebbero una maggior diffusione su tutti gli strati della popolazione, rispetto allo yoga classico, poichè non erano esclusivi di una sola classe di persone o casta, ma si trattava di insegnamenti rivolti a tutti, indistintamente.


Dal Bhakti-yoga fiorì il Visnuismo
, mentre

dal Tantrismo derivarono lo Shivaismo e il Sakhtismo.



A loro volta, poi, queste correnti si suddivisero in numerose sottoscuole e sette.


Il Bhakti-yoga è la via della devozione,

lo Jana-yoga quella della conoscenza,

il Karma-yoga quella dell'azione.


Essi sono fra loro strettamente connessi, le differenze consistono solo sull'attenzione posta allo strumento di salvezza. Uno jana considererà più importante la ragione, piuttosto che il cuore, il quale, invece, sarà ritenuto più importante da un bhakta; così, un seguace del karma-yoga considererà più importante concentrarsi sulla correttezza delle proprie azioni, sulla loro fedeltà al Dharma (legge), ma non rinnegherà per questo il valore e l'importanza della devozione, della preghiera, ecc.

Così, la spiritualità, che si era racchiusa nelle mani dei brahmani, tornò di nuovo alla portata di tutto il popolo: un ksatrias che sceglieva il karma-yoga poteva, senza timore, uccidere combattendo, poichè veniva giustificato dalla sua fedeltà al dharma (legge) della sua casta; mentre un paria, tagliato fuori dal mondo dai brahmani, poteva divenire un illuminato grazie al bakhti-yoga, ecc.

I TESTI SACRI: I libri sacri degli indiani sono scritti in sanscrito, la lingua dotta dell'India antica. L'insieme delle scritture sacre dette Veda (cioè "sapere religioso", "scienza sacra") è stato composto lungo un periodo che va dal 1800 all'800 a.C.. Sono, tuttavia, date molto controverse e c'è chi vuole siano state, invece, redatte in epoca molto più remota, ancor prima del terzo millennio a.C.. Dei tanti Veda, che un tempo esistettero, solo quattro libri sono giunti fino a noi.

Essi sono:
- Rig-veda, il sapere in versi;
- Yajur-veda, il sapere in formule liturgiche;
- Sama-veda, il sapere in melodie liturgiche;
- Athar-veda, il sapere in Atharvan, una particolare casta di sacerdoti.

Le prime tre sezioni costituiscono un insieme abbastanza unitario, tanto che venivano designate col nome di "triplice scienza": la casta sacerdotale doveva conoscerle e praticarle con scrupolo. Nella tradizione scolastica indiana, però, ha avuto valore un'altra distinzione, basata sui generi letterari. Ad esempio tutto ciò che nei Veda è composto in versi poetici è stato raccolto nella Samhita (collezioni poetiche), mentre tutto ciò che è stato composto in prosa nelle Upanishad.

Il termine Upanishad significa seduta segreta, confidenziale; si tratta, infatti, di 108 resoconti di colloqui tra maestro e discepolo. Il tema che vi domina è quello della conoscenza in quanto via di liberazione.

Oltre a quelle che fanno parte dei Veda, però, abbiamo Upanishad lungo tutto il corso della storia spirituale indiana. Nel loro insieme costituiscono il Vedanta, cioè la "fine dei Veda"
, sia nel senso ovvio di ultima parte, che di quello di "momento culmine".

Nei tre o quattro secoli prima dell'era cristiana, inoltre, e in altrettanti successivi, fiorì in India una straordinaria tradizione epica, la quale prese forma letteraria in due opere, il Mahabarata (che, fra l'altro, è il più vasto poema della letteratura mondiale) e il Ramayana, attribuite rispettivamente a Viasa e a Valmiki, che sono però da ritenersi autori leggendari, un po' come l'Omero greco.

Secondo una tradizionale distinzione indiana, sono due le grandi stirpi mitiche: quella lunare, illustrata dal Mahabarata, e quella solare, illustrata dal Ramayana. Dei due poemi, il primo è quello che suscita maggior interesse.


"Come in un fiume, dai molti affluenti, nel Mahabarata si ritrova, allo stato di mescolanza, tutto quello che l'India ha immaginato e pensato nei primordi della sua formazione".

Il libro 4° del Mahabarata è una disgressione speculativa di ben 700 strofe. La tradizione indiana ne ha fatto un libro a sé, dal titolo Bhagavad Gita (Canto del beato Signore) o, semplicemente, Gita.

Dai Veda derivano oltre alle Upanishad, le Brahmana che ne costituiscono un commentario e, come suggerisce la parola stessa, furono elaborate dalla casta sacerdotale.

Abbiamo poi i Purana, racconti mitologici e leggende non inserite nei due poemi prima citati; le Agama, i testi basilari delle tre grandi correnti religiose indiane (Visnuismo, Sivaismo e Sakhtismo); infine, vari codici, quali le leggi di Manu, che specificano il comportamento, i rituali, la disciplina degli atti, insomma, propria di ciascuna casta (per cui vi si atterranno scrupolosamente i seguaci del karma-yoga).