Parco dei mostri di Bomarzo

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Bomarzo, in provincia di Viterbo, possiede un "Sacro Bosco", uno dei luoghi simbolici più interessanti della nostra penisola.

Indice

[modifica] Storia

Arroccata su una rupe, Bomarzo domina una valle che un principe del Cinquecento, Pierfrancesco detto Vicino Orsini, trasformò in un luogo di riflessione e di ricerca, oltre che di pace e di serenità. Vicino Orsini nacque nel 1523 e fu un soldato di un certo valore; fu però un pò sfortunato poichè, nel corso di una campagna contro la Francia, fu fatto prigioniero e solo tre anni dopo potè ritornare a casa. L'anno prima dell'impresa di Francia, Vicino aveva già cominciato i lavori nel suo boschetto; ritornato in patria, vi attese fino alla sua morte, avvenuta nel 1585.

[modifica] Descrizione

Vicino adattò il bosco che ricopriva la vallata a formare un percorso lungo il quale il visitatore trovava sculture ed edifici enigmatici, illustrati da iscrizioni che, più che chiarire il mistero, lo infittiscono.

La particolarità del "Sacro Bosco" è costituita dalle sculture e dai monumenti che non provengono da un laboratorio esterno, ma sono stati tratti dai massi che si trovavano sul posto. Vicino lavorava intensamente a pensare, a disegnare, a creare le immagini a partire dalle quali artisti e artigiani modellavano poi le figure trandole dalle rocce. Proprio a queste sculture il luogo deve il nome di "Parco dei mostri". Ma non sembra giusto, nè sotto il profilo etico, nè sotto quello conoscitivo, classificarlo sotto il segno della "bizzarria", come ha fatto qualche studioso.

A Vicino l'elaborazione del "Sacro Bosco" costò la fatica intelllettuale e la tensione spirituale di una vita. Vicino usava il nome di "Sacro Bosco" per la sua creazione e cosi anche lo chiamiamo noi, eliminando la denominazione "Parco dei Mostri".

Dopo la morte di Vicino Orsini, il bosco cambiò più volte padrone, ma lentamente cadde in un oblio che durò secoli. Solo di recente si è cercato di ricondurre la località all'antico splendore, ma è stato molto difficile recuperare la struttura originaria rovinata non solo dal secolare abbandono ma anche da eventi naturali che alterarono la fisionomia dei luoghi, mentre i monumenti erano stati pressochè sepolti dalla vegetazione.

All’ ingresso fiancheggiano due sfingi, simbolo dell'enigma che per gli antichi coincideva con la Sapienza. Sui basamenti delle sfingi due iscrizioni invitano ad entrare nel Sacro Bosco.

[modifica] Il bosco di Bomarzo

Qui il Principe Pier Francesco Orsini ideò il Bosco di Bomarzo, aiutato nell’impresa dall’architetto Pirro Logorio, successore di Michelangelo a San Pietro. Secondo i racconti, il bosco sarebbe dedicato ad un grande amore, la moglie, fino a dedicarle alla sua morte il cosiddetto Tempio, che si trova su una piccola altura all’interno del parco. Dopo la morte del Principe, gli eredi abbandonarono il parco, e solo dopo 400 anni, la famiglia Bettini, recuperò con restauri e lavori quello che oggi possiamo ammirare. Per questo motivo, all’interno del Tempio, potrete ammirare una lapide dedicata a Tina Severi Bettini. Tanti aggettivi sono stati dedicati a questo parco monumentale, come tanti dipinti ed anche molti versi di pittori e di poeti. Alcuni lo chiamano come “bosco sacro”, o come “bosco iniziatico”, che, nelle intenzioni del Principe Orsini, voleva segnare il percorso di evoluzione dell’uomo.

[modifica] Le sfingi

“Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende venite qua…”

Le sfingi si trovano subito, non appena entrati nel bosco, sotto un arco di pietra. Vi sono anche delle scritte sotto ai guardiani fatti di roccia. Sotto una troverete: “Chi con cigli inarcate et labbra strette non va per questo loco manco ammira le famose del mondo moli sette.” E l’altra: “ Tu ch’entri qua pon mente parte a parte e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte”.

Il motivo per cui è stata scelta la sfinge greca, richiama probabilmente la sua funzione di guardiano delle città sacre. Il nome in greco antico è Σφιγξ, ovvero “strangolatrice”. Nella mitologia greca le sfingi erano dotate di ali ed avevano la testa di una donna. Era la punizione di Era nei confronti della città di Tebe: il mostro, posto davanti alla città, su una rupe, ripeteva un indovinello a chi voleva entrare in Tebe. Chi non riusciva a risolverlo, veniva ucciso. L'indovinello consisteva nell’individuare quale fosse l'animale che al mattino camminava su quattro zampe, a mezzogiorno su due e alla sera con tre. Solo Edipo rispose correttamente: l’uomo. E la sfinge, sconfitta, si gettò dalla rupe (anche se altre versioni dichiarano che Edipo stesso la uccise). In realtà l’enigma posto voleva significare: chi è l’uomo?

Ed a questo punto avete due strade, una a sinistra ed una a destra. Girando subito a sinistra, troverete delle figure che incarnano gli dei più antichi: Saturno, Giano, Fauno Evando e la Triplice Ecate. Ecate fu una dea della mitologia greca. Era in grado di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli Dei ed il regno dei Morti e sovente viene raffigurata con delle torce in mano. E’ raffigurata come triplice: ovvero giovane, adulta/madre e vecchia. Poteva operare incantesimi e comandare gli spettri, e le sue statue venivano poste negli incroci, a protezione dei viandanti (Ecate Enodia o Ecate Trioditis). Fu lei a sentire le grida disperate di Persefone, rapita da Ade presso il Lago Pergusa, e portata negli Inferi, e fu lei ad avvertire Demetra di quanto era accaduto.

[modifica] Proteo-Glauco

Proteo è una figura della mitologia greca, figlio di Oceano e Teti. La sua particolarità stava nel poter cambiare forma ad ogni momento. Racconta un'antica leggenda che nell'Era grande della preistoria, venne a Capo Peloro, nella cuspide nord-orientale della Sicilia, un giovane della Beozia di nome Glauco, ritenuto figlio di Nettuno. Aiutato da alcuni amici, tagliò sui monti intorno alcuni alberi di pino e con il legno ricavato costruì una barca snella e veloce che dipinse con i colori del mare, e cioè di azzurro e di verde. Decise di fare come mestiere il pescatore e divenne così bravo e così abile che le sue reti, alla fine di ogni pesca, risultavano sempre piene di una quantità enorme di pesci. Glauco non tratteneva mai per sé tutto il pesce, ma lo ripartiva sempre con gli amici, accontentandosi dello stretto necessario per nutrirsi e vivere alla giornata.

Oltre ad essere generoso e di buon cuore, Glauco era anche bello come un dio. Occhi azzurri, sopracciglia folte e arcuate, il naso dritto e regolare, e la bocca rosea e morbida come quella di un fanciullo, mentre una barba corta e riccioluta gli incorniciava il mento, deliziosamente. I suoi capelli erano lunghi e sottili come fili di seta e gli scendevano sulle spalle morbidi e carezzevoli, e quando camminava oscillavano ad ogni suo movimento e sotto al sole cambiavano di colore, passando dal biondo al ramato. Tutte le nereidi , Tetide, Anfitride, Panope e la stessa Galatea bianca come il latte, assieme alle sirene ammaliatrici e alle sorridenti ninfette delle acque, venivano dalle parti del Peloro per conoscerlo e parlargli. Spesso, alcune di esse, si spingevano fin sulla spiaggia e più d'una, avvinta dal suo fascino, gli sorrideva con invitante simpatia. Glauco era gioioso con tutte e scherzava come fa un buon compagno di giochi. Ma in particolare non guardava nessuna, contento solo di godersi la scanzonata libertà della sua verde giovinezza e quel senso giocondo di disporre pienamente e liberamente del suo tempo e dei suoi pensieri.

Un giorno, assieme alle sirene e alle ninfe, dalle parti di capo Peloro venne la figlia di Forco, la dolce e romantica Scilla, fanciulla bellissima e soave, piena di vita e desiderosa d'amore. Nel suo piccolo cuore pulsavano i sogni di giovinetta e tutta lei stessa, ancora, s'infiammava al pensiero del suo ipotetico futuro amore. Quando Scilla vide Glauco, sentì il cuore batterle più forte e il sangue le salì alle gote e le imporporò il viso di desiderio. Da quel momento, ogni giorno, sul far dell'alba, lei cominciò a venire alla riva del Peloro ad aspettare con il cuore innamorato e palpitante che il biondo Glauco venisse a preparare la sua barca per la pesca. Poi se ne restava ansiosa ad attenderlo fino al tramonto, fino a quando non lo vedeva tornare con le ceste colme di pesci ed avviarsi poco distante, alla sua piccola dimora. Scilla era timida e mai avrebbe osato dichiarargli il suo amore. Perciò si accontentava solo di guardarlo, di sorridergli e di sperare. Glauco, invece, la guardava e le sorrideva con simpatia. E qualche volta, forse, dovette anche rivolgerle un sorriso più affettuoso o accennarle una carezza, e Scilla s'infiammò ancora di più, cullandosi nel sogno di quel suo ingenuo amore, puro e sincero come è sempre puro e sincero il primo amore. Un giorno passò dalle parti del Peloro la maga Circe, la bianca fanciulla dalla pelle vellutata come un petalo di rosa, ma volubile come una frasca al vento, sempre languida e desiderosa di ebbrezze d'amore. Scilla l'ebbe per amica, e assieme andarono a fare i bagni nel laghetto dei Margi. A sera, poi, andavano a passeggiare lungo le rive dei Ganzirri, ad ammirare il verde-azzurro fluttuare delle onde del mare che dal Tirreno correvano lente ma costanti verso il mare Ionio. Scilla, un giorno, confidò a Circe il suo amore per Glauco e in cambio ebbe consigli e una promessa d'aiuto.

- Fammi vedere questo tuo straordinario giovane! - le disse la maga -

Ed io t'insegnerò il modo di conquistarlo...

Il giorno dopo Circe e Scilla si recarono sulla spiaggia. Poco dopo giunse anche Glauco. Nella lucentezza dell'alba alle due donne egli apparve bello come un dio, agile come un'atleta e smagliante in tutta la sua giovinezza, esaltata dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, profondi come il mare. Circe ne rimase ammaliata e se ne innamorò.

- Bello è Glauco, figlio di Nettuno! - pensò estasiata nella sua mente -

È l'essere più bello che io abbia mai visto... Ho deciso! Egli fa giusto al caso mio... È l'uomo adatto al mio furente amore... Lo farò mio amante!...

- E tu! - disse poi a voce alta, rivolta a Scilla - Cercati un altro uomo, perchè Glauco dai capelli biondi e dagli occhi di mare, ora appartiene a me!...

Quelle parole per Scilla furono come una sentenza di morte. Come poteva, l'ingrata maga, rubarle il suo amore? E non s'accorgeva che Glauco per lei rappresentava la vita? Male aveva fatto a confidarle i suoi sentimenti. Sentì il cuore quasi fermarsi e poco mancò che non morisse. Come se non bastasse, la perfida Circe decise anche di eliminare la bella Scilla: così avvelenò la fonte in cui Scilla sovente veniva a bagnarsi e poi, impugnata una bacchetta magica, la toccò su una spalla. Ingannata dalla maga, Scilla cominciò a trasformarsi in un mostro marino, con sei teste latranti e dodici orribili e deformi gambe. La sua pelle, prima liscia e delicata come un petalo di rosa, cominciò a coprirsi di squame ruvide e lucenti, e la sua voce, prima melodiosa e dolce, ora divenne rauca e abbaiante. Appena Scilla s'accorse d'essere divenuta un mostro, non resse alla disperazione e si gettò in mare. Il suo cuore si trasformò in macigno e s'incrudelì al punto da costringerla a far strage dei naviganti che avevano la ventura di passare dalle parti della sua caverna. La stessa Circe, più tardi, descrivendola ad Ulisse, la definì un: "...prodigio immortale uno spavento, un orrore selvaggio con cui non si lotta: contro di lei non c'è riparo bisogna fuggire". Ma la perfida Circe si stancò anche dell’amore di Glauco. Quando venne la primavera, volubile com'era, si stancò del suo amore e lo lasciò. Dapprima pensò di trasformarlo in un animale, come aveva fatto con i suoi passati amanti, ma non poté farlo perchè Glauco era figlio di Nettuno. Alla fine lo lasciò senza neanche dirgli addio e se ne tornò nella sua isola di Eea. Quando Glauco s'accorse d'essere stato abbandonato, cadde in una tristezza profonda. Ma la tristezza aumentò quando seppe della brutta fine di Scilla, di quella piccola creatura dalla voce melodiosa che tutte le mattine per tanto tempo, lo aveva atteso sulle rive del Peloro e che la perfida Circe, per gelosia e con l'inganno, aveva cambiato in un orrido mostro marino.

- Oh grandi dei! - inveì in cuor suo - Perchè mi dannaste a così crudele destino?

Ora, ogni giorno, Glauco aveva preso l'abitudine di uscire con la barca fuori dalle acque dello Stretto e di avvicinarsi all'antro di Scilla. Quando giungeva nei pressi, la chiamava per nome e cominciava a rammentarle il tempo felice dei loro primi incontri. L'orrido mostro, più di una volta, fu sul punto d'avventarsi contro con le sue bocche latranti ed inghiottirlo. Ma, pur se soggetta alla demenza canina, forse, nel cuore, manteneva ancora qualcosa del suo amore di donna. Così, dopo aver latrato minacciosa, finiva per acquietarsi e rientrava nelle buie caverne marine mentre Glauco, afflitto e disperato, tornava alla spiaggia dello Stretto.

E intanto passarono gli anni. Glauco, sempre più malinconico, divenne un vecchio curvo, pieno di ricordi e di rimorsi. Egli, non si allontanò mai più dalle rive dello Stretto e continuò a vivere solitario ed eremita, vivendo solo del prodotto della sua pesca, per fortuna, sempre abbondante. I capelli e la barba gli erano incanutiti, ma gli occhi erano rimasti vivi e lucenti, forse un poco tristi a causa del tenero e mai scomparso ricordo di Scilla quando, ancora giovinetta, dolce e bellissima, si era perdutamente innamorata di lui. Glauco, ora, era anche stanco. Ogni giorno, tornando dal mare, remava sempre più lentamente e con più fatica. Una volta, mentre tornava da una pesca lontana, vide in mezzo al mare un'isola bellissima piena d'alberi e di fiori. Persino sul bagnasciuga vi cresceva un'erbetta verde e argentata, soffice e molle come un bellissimo tappeto di Persia. Glauco, improvvisamente, si sentì stanco e triste. Accostò con la barca a quell'isola sconosciuta, tirò a secco le reti e sedette sulla soffice erbetta, cominciando a selezionare i pesci pescati. E allora egli vide una cosa incredibile, meravigliosa. Quei pesci, appena toccavano quell'erba, tornavano a vivere, e a piccoli balzi saltellavano verso il mare, e vi si tuffavano dentro riacquistando vita e vigore. Glauco restò sbalordito. Mai, in vita sua, aveva visto o sentito parlare di cose simili. Ora era vecchio e stanco, e anche un tantino miope. Ma quello che vedeva era realtà e non sogno. Colse un ciuffo di quell'erba e lo mangiò. Oh, che sapore bellissimo aveva quell’alga! Nella sua mente tornò il ricordo degli aromi dei cibi mangiati nella prima fanciullezza, e gli parve d'avere in bocca zucchero e miele ed elisir, e tutte le leccornie che aveva mangiato da bambino. E allora colse altri ciuffi di quell'erba e li mangiò e così di seguito, con ingordigia, fino a divenire sazio. E allora in lui s'avverò il miracolo. D'un tratto il suo corpo ebbe un fremito. I suoi piedi cominciarono a colorarsi di verde e poi le gambe, le braccia, il busto e la faccia, divennero verdi come il colore di quell'alga che aveva mangiato. La sua barba cominciò ad assumere un bel colore verde e su tutto il corpo gli spuntarono peli verdi e lunghi, sottili e fini come fili di seta. Il cuore di Glauco si riempì di gioia, mentre una forza incontenibile, più grande della sua stessa volontà, lo fece alzare da terra e correre verso il mare, dentro al quale s'immerse con un gran salto. Oh, il grande dolce sapore del mare, l'estasi sublime in cui ogni sentimento s'annulla e la pace si confonde con la gioia! Lievi le onde lo accarezzarono sfiorandolo e Glauco, il biondo ceruleo Glauco, divenne un tritone del mare, immortale e profetico. Sul fondo egli vide una casa attorniata da un giardino bellissimo, pieno di alghe e di coralli, un caleidoscopio di colori stupendi, mentre attorno si udiva una musica dolcissima e allettante. Vi entrò e ne fece la sua reggia. Da quel giorno Glauco volle restare per sempre nel mare dello Stretto. Si rivide con Scilla? Le parlò? Cessò, per questo, Scilla, di far strage dei naviganti? Dice la leggenda che anche ai tempi nostri, quando infuria la tempesta, Glauco solleva il capo al di sopra delle onde e subito, il mare si fa calmo e diventa invitante, come lo era nella preistoria, quando Scilla era ancora una fanciulla bellissima e non un feroce mostro mari no, con dodici gambe e sei latranti teste canine.

[modifica] Il Mausoleo

Sulla vostra strada troveremo un masso dimezzato e divelto sul terreno. Sul frontone vi sono delle figure che ricordano la tomba della Sirena situata nella città di Sovana. Sovana è una città etrusca che si trova a pochi chilometri da Viterbo. Qui vi sono diversi siti archeologici interessanti, tra cui appunto la tomba della Sirena nella necropoli. La facciata della tomba ricorda lo schema della facciata della casa etrusca. Proprio sul frontone vi sono delle sculture ad altorilievo che rappresentano una sirena che stringe tra le sue due code due giovanetti. Sempre sul mausoleo vediamo una ninfa marina tiene in mano una melagrana. E con questa immagine, scendiamo le scale di pietra poste sulla nostra destra, finché non vedremo ad una lotta tra giganti…

[modifica] La lotta tra giganti

“Se Rodi altier fu già del suo colosso pur di questo il mio bosco anco si gloria ed per più non poter fo quanto posso.” Rodi fu chiamata la città dei cento colossi per la presenza di numerose statue colossali. Scendendo tra i gradini, compare la lotta tra due giganti, Ercole, che ha la meglio, e Caco. Caco (dal latino Cãcus) secondo alcuni è un dio del fuoco, altri studiosi invece lo identificano con un numen del luogo, un eroe locale di Roma. Caco viveva in una grotta dell’Aventino ed appare nella decima Fatica di Ercole. Ne parla Virgilio (Eneide VIII, 193-306), come di un mostro sputafuoco, ma anche Tito Livio (I, 7), Orazio (Satire), descrivendolo come un pastore, e Dante Alighieri (Inferno XXV, 17-34, come di un centauro). I fatti: Ercole tornò dalla sua spedizione nell’Occidente mediterraneo, si fermò a far pascolare i buoi sottratti a Gerione nel sito del futuro Forum Boarium durante il suo riposo. Caco non rubò tutta la mandria, ma portò via solo alcuni animali e li nascose nella sua grotta. Per non lasciare tracce trascinò gli animali per la coda, costringendoli a camminare all’indietro: in questo modo le tracce sembravano dirigersi fuori dalla caverna e non verso di essa. Al risveglio di Ercole, questi si accorse della sparizione, e sentendo i muggiti da lontano, individuò il luogo di prigionia. Ercole affrontò Caco, il quale avendo tre teste soffiava fuoco dalla sue bocche. Ercole mise mano alla sua mazza e lo uccise. Un’altra versione racconta di Caco che si nasconde nella sua caverna ammassando rocce all’entrata e che sfida in questo modo gli attacchi di Ercole. In ogni caso Ercole riesce a sopraffare Caco, togliendo i massi ad uno ad uno….

Oltre ai due personaggi, si intravedono intorno a questa scultura un elefante che fa capolino, un guerriero con una corazza ed Ercole che sovrasta il tutto. Scendiamo ancora per vedere cosa ci aspetta…

[modifica] Il gruppo Tartaruga, Donna, Balena

Scendendo dalle scale di pietra si può intravedere un curioso gruppo: una gigantesca figura di Tartaruga, che sostiene sul suo dorso il simulacro di una donna. La figura della donna si trova su una sfera e rappresenta la vittoria alata: Nike. Gli occhi della tartaruga fissano le fauci spalancate di un animale che spunta dal fossato antistante, pronto ad inghiottire la preda. La figura della tartaruga è curiosa: è posizionata su una pietra, che ad un’estremità, e cioè verso il torrente, è a forma di prua. Questa scena simbolica Logorio l’ha resa ancora più esplicita posando sul dorso della tartaruga, sopra la sfera, una vittoria alata. La tartaruga, nel simbolismo dei primi Padri della Chiesa, era il simbolo dell’attaccamento alla terra. In questo contesto si potrebbero esaminare le due statue: Nike, la vittoria alata, figlia di Pallante e di Stige, e, appunto la tartaruga, la terra, ciò che fa da gradino alla dea.

[modifica] Pegaso, il cavallo alato

Vicino alla tartaruga si trova il cavallo alato, Pegaso, che cerca di volar via ad annunciare la vittoria agli Dei. Pegaso lo ritroviamo in varie leggende, soprattutto in quella di Perseo e Bellerofonte. Si faceva derivare il suo nome dalla parola greca che significa sorgente (Πηγή) e si raccontava che era nato “alle fonti dell’Oceano”, nell’estremo Occidente, quando Perseo uccise la Gorgone.

[modifica] Le sculture

Una volta allontanati dalla Fontana con il Pegaso alato, e proseguendo verso il sentiero, alla nostra sinistra troveremo un tronco d'albero scolpito su un masso. Alla destra invece apparirà una scultura a forma di torretta di carro armato. Nessuna interpretazione da parte degli studiosi, che sulle guide invitano a proseguire dritto. E andiamo avanti.

[modifica] Il ninfeo-vasca

Prima di accedere alla vasca, tre grazie abbracciate ci accoglieranno nel nostro cammino. Anche le tre Grazie fanno parte della mitologia greca. L’altro loro nome è Cariti e sono divinità della Bellezza, e probabilmente, in origine, legate alla vegetazione. Si rappresentano generalmente come tre sorelle: Eufrosine, Talia e Aglae, tre giovani nude che si tengono per spalle. Le ninfe sono rovinate dal tempo, ma trasmettono ancora quella purezza cara a Ligorio. Ai piedi dei ninfei vi sono due piccoli tritoni, mentre due leoncini stanno di fronte, una zampa su una sfera. Qualche frase si legge ancora “ L'antro, la fonte d'ogni oscur pensiero...” Sulla nostra destra una grande fontana, asciutta, ma un tempo alimentata da due delfini. Proseguiamo...

[modifica] Venere su conchiglia

Ligorio la definisce "Venere virile", amica di Marte, guardiana della castità, della Patria e della Virtù. Venere nella conchiglia è un tema che troviamo ricorrente in ogni tempo: dall’affresco di Pompei fino alla Venere di Botticelli. Nella Grecia era chiamata Afrodite. A Roma rappresentava il fascino, la bellezza, il desiderio, ed a lei era dedicata la festa della primavera (il primo aprile vi era infatti la Veneralia). Nel mito greco Afrodite nasce dalla schiuma del mare sulle coste dell’isola di Cipro (Afrodite deriva da aphrós, schiuma appunto). Era anche soprannominata Anadyomene, ovvero “colei che emerge dal mare”. Molto interessante è la differenza che pone Platone: due erano le personificazioni dell’amore: una volgare (Aphrodite Pandemia) e l’altra celeste (Aphrodite Urania). Pandemia è chiaro il significato: dal greco pandèmia, da pan, tutto e dèmos, comune, popolo. Ovvero malattia che attacca un gran numero di persone in un paese.

[modifica] Il grande teatro

Proseguendo il cammino arriviamo ad un grande teatro. Ci sono delle frasi mozzate: “Per simili vanità mi sono ac....to On ..... parmi ..... cor...” L’origine del teatro è Religiosa, ovvero era un modo per avvicinare l’uomo alla divinità, attraverso la rappresentazione del sacro nei riti e nelle danze. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi: è stato ritrovato un papiro, nel 1928, da parte di Kurt Sethe, che dimostra come, mille anni prima della nascita della tragedia greca, il teatro fosse praticato nell'antico Egitto sotto forma del culto dei "Misteri di Osiride". Nell’area sacra di Paestum vi era all’interno anche un teatro, prova che la drammaturgia era intesa solo in senso sacrale.


[modifica] La casa pendente

La casa pendente è stata costruita sopra un masso inclinato, e non è l'effetto di uno smottamento o di un terremoto. Pare che la casa si trovi all'inizio della primitiva entrata. Qui Vicino Orsini voleva dare una prima emozione ai visitatori del suo parco. Al di fuori della casa, troviamo incisi oltre alle sue armi, il motto: “Queiscendo animus fit prudentior Ergo”. Si tratta della dedica per la visita del Cardinal Madruzzo principe tridentino. Proseguiamo la nostra visita. Una volta saliti i pochi gradini alla sinistra, troveremo due file di vasi con le scritte logorate dal tempo. Ma di fronte ci aspetterà una sorpresa…

[modifica] Nettuno

Oltrepassati i vasi, al centro della gigantesca vasca, troviamo il dio dei mari, Nettuno, che tiene un piccolo delfino sotto ad una mano. Di fianco un grande delfino che apre la bocca. Nettuno è il dio dei mari identificato con Poseidone. La sua festa veniva celebrata il 23 luglio, nel momento della grande siccità. Il delfino è invece legato, tra le tante cose, anche ad Apollo: si narra che Apollo prese le sembianze di un delfino per condurre i Cretesi a Delfi, dove edificarono un tempio a suo nome. Un delfino avrebbe anche favorito le nozze tra il dio Poseidone e la sua sposa Anfitriti.

Il delfino è un mammifero marino, intelligente e benevolo verso l’uomo. Creature che conoscono bene il mare (che rappresenta anche l’aldilà): infatti tra gli Etruschi i delfini vengono rappresentati come i traghettatori delle anime dei morti alle Isole dei Beati. Nel Cristianesimo dei primi secoli divenne emblema del Cristo amico. Non ci sarebbe bisogno di spiegarne il motivo: dare la vita di un amico fu un concetto (e più di un concetto) introdotto proprio dal Cristo. Il delfino fu quindi il geroglifico che indicava il Cristo-Amico, il grande Amico, e tra Lui e il cristiano i rapporti che intercorrono sono gli stessi di cui parla il libro di Raimondo Lullo, L’Ami et l’aimé.

[modifica] La ninfa dormiente

Sospesa nel mondo dei sogni e del sonno, troviamo la ninfa dormiente. Ligorio la chiama Nife, ed al suo fianco vigilava un cane di pietra, che fu decapitato quando il luogo venne abbandonato. Le ninfe vengono definite come “giovani donne” e popolano la campagna, i boschi e le acque. Sono gli spiriti dei campi e della natura, in genere, e portano fecondità e grazia. Nonostante siano divinità secondarie, intermediarie tra Zeus e il mondo umano, possono essere anche temibili.


[modifica] La Dea Cerere

Torniamo sui nostri passi e troveremo un altro personaggio mitico: Cerere. Si trova in mezzo ad agavi e vi sono anche altre figure di contorno, come due tritoni che trattengono un fanciullo che gioca alle spalle della dea. Nel nostro cammino, ancora una volta troviamo un delfino che unisce a sua volta Anfitrite a questo gruppo. Cerere è circondata da grandi vasi. Il suo nome deriva dal latino Cěrēs, ed è il nome romano della dea greca Demetra. Come Osiride insegnò l’arte dell’agricoltura agli uomini (dove il composto “terra” in realtà era il genere Umano stesso) così anche Demetra-Cerere per i greci ed i romani, era Colei che portò agli uomini la coltivazione dei campi: per questo motivo veniva rappresentata come una matrona severa e maestosa, con una corona di spighe sul capo, una fiaccola in una mano ed un canestro ricolmo di grano e di frutta nell'altra.

[modifica] L'elefante

Si tratta di una delle sculture più grandi del parco. Un elefante, sormontato da una torre, che stritola con la sua proboscide un Legionario. Il riferimento sicuramente va ad Annibale, comandante militare dell’antica Cartagine, ed alle sue battaglie contro Roma, rappresentato appunto dal legionario. Secondo Livio, nel 211 a.C. Annibale, volendo allontanare l’esercito romano impegnato nell’assedio di Capua, decise di marciare direttamente su Roma, sperando di poterla prendere con un’azione improvvisa che generasse spavento e scompiglio (Livio, XXVI, 7). Nonostante non avesse forze sufficienti per conquistarla, tentò comunque la sua impresa e riuscì a porre l’accampamento sull’Aniene, a circa 3 miglia da Roma. Riuscì persino a spingersi il più possibile vicino alle mura dell’Urbe ma fu allontanato e costretto a spostarsi verso nord presso il fiume Tuzia, corrispondente ad uno degli affluenti del Tevere. Qui si affrettò verso il bosco sacro della dea Ferocia, il cui tempio in quell’epoca era famoso per le sue ricchezze, dal momento che gli abitanti di Capena, portandovi ogni genere di dono, lo avevano ornato con oro e argento (Livio, XXVI, 11). Fu così che Annibale deviando dal suo percorso giunse a Lucus Feroniae e attratto dalla fama dei suoi tesori, non perse tempo a depredarlo. È sempre Livio a dirci che dopo il devastante passaggio furono ritrovati mucchi di metallo e pezzetti di bronzo, gettati via dai soldati cartaginesi per scrupolo religioso. A due secoli di distanza lo scrittore latino afferma che le tracce del passaggio di un esercito così grande non si sono ancora perdute. Non solo fama e ricchezza erano legate al santuario, ma anche strani prodigi avvenuti dopo il passaggio di Annibale – quattro statue avevano infatti sudato sangue per un giorno ed una notte – espiati con una solenne preghiera pubblica6.

[modifica] Il drago

Il cammino ci porta direttamente tra le fauci di un … drago! Sì, proprio un drago, circondato ed attaccato, da tre animali: un cane, un leone, un lupo (secondo Ligorio simboli della primavera, dell'estate e dell'inverno, ma probabilmente vi è dell’altro ancora…). Curiosamente in tutte le leggende (come quella di San Giorgio, per esempio) i draghi vengono affrontati da santi, eroi e progenitori di stirpi nobili. La vittoria sul drago, nei miti e nelle fiabe, è una dura prova che l’eroe deve affrontare per avere un tesoro o liberare la principessa. Il drago alato di Bomarzo si trova a vegliare sulle fontane e due degli animali che lo assalgono (la lupa e il leone) sono gli stessi che sbarrano il passo a Dante Alighieri nel primo Canto dell’Inferno…

[modifica] L'orco

Si tratta della più famosa scultura dell'intero parco delle meraviglie: un'enorme testa di un uomo, impietrita da un grido. Viene chiamato Orco e sulle sue labbra troviamo scritto: “Ogni pensiero vola”.

L'orco fa spavento da lontano, poi man mano che si avvicina e si salgono i gradini, si può intravedere un tavolo ed una panca di pietra. È naturalmente possibile varcare la soglia per entrare dentro questa grande costruzione.

[modifica] Il vaso gigante

Nel proseguire la visita, verso sinistra, apparirà un gigantesco vaso. Alla base di questa opera in pietra possiamo vedere l’effige della Medusa. Pare che questo vaso sia la replica in pietra di altri due vasi che c’erano a Roma: uno nella piazza di Santa Maria Maggiore, l’altro in piazza dei Santi Apostoli. Quest’ultimo è già menzionato in un documento del 1183 con il nome di “calix marmoreus”. L’effige di Medusa invece si ritrova spesso nelle armature e durante le battaglie (sullo scudo di Perseo per esempio). Figlia di Forco e di Ceto, era delle Gorgoni, l'unica ad essere mortale. Poseidone era innamorato di Medusa, ed una notte la portò al tempio di Atena per consumare il loro amore. Ma Atena la prese come un’offesa e tramutò i capelli di Medusa in serpenti: in questo modo chiunque le guardasse gli occhi sarebbe stato trasformato in pietra. Ad uccidere Medusa ci pensò Perseo, che le mozzò la testa guardandola attraverso uno scudo lucido. Quando tagliò il capo, dal collo della Gorgone uscirono i figli che aveva generato dopo la notte con Poseidone, Pegaso e Crisaore. La sua testa non perse quel potere di trasformare in pietra chiunque la guardasse: Perseo, infatti, la mostrò ad Atlante che diventò di pietra. Infine, la testa di Medusa fu regalata da Perseo ad Atena, in cambio delle specchio riflettente con il quale le dea gli aveva suggerito di affrontare e di uccidere Medusa. Atena, ricevutala in dono, la pose al centro della propria Egida. E da quel momento si diffuse l’uso di porla sulle armature e sulle vesti regali (come quelle degli imperatori di Roma).

[modifica] L'ariete

Proseguendo nel nostro cammino, troviamo dapprima un ariete coricato, e poi la panca "etrusca", una panca protetta da un arco, leggermente inclinata. L’ariete riposa solitario nel bel mezzo del parco. Nella mitologia greca era l’animale rivestito del “vello d’oro”. Condusse i principi Frisso ed Elle al di là del mare, nella Colchide e come ricompensa fu trasferito tra le stelle dando origine alla costellazione con lo stesso nome. Il suo vello però rimase nella terra di Colchide e per questo motivo la costellazione celeste illumina solo debolmente…

Sulla panca etrusca Orsini ci fece scrivere:

"Voi che pel mondo gite errando, vaghi di vedere meraviglie alte e stupende, venite qua, dove son faccie horrende elefanti, leoni, orsi, orchi e draghi."

Una volta finita la sosta, sopra il vialetto in salita verso il tempio, alla nostra destra troveremo il Cerbero. Il Cerbero è “il cane dell’Ade”, uno dei mostri a guardia del Regno dei morti. Non solo proibiva l’ingresso ai vivi, ma impediva anche di uscirne. La classica immagine del cerbero è quella di tre teste di cane, una coda formata da un serpente, e sulla schiena, una moltitudine di teste di serpenti. Secondo altri le teste erano cinquanta o anche cento. Una delle fatiche imposte da Euristeo ad Ercole fu quella di andare negli Inferi per riportare Cerbero sulla terra. Ercole si fece dapprima iniziare ai misteri d’Eleusi, poi Ade gli diede il permesso di portare il cane sulla terra, solo ad una condizione: domarlo senza servirsi delle sue armi. Così Ercole lottò contro il Cerbero con le sole mani, fino a quasi soffocarlo. Una volta domato lo trasportò dinanzi ad Euristeo, ma questi, atterrito, volle che fosse spedito nel Regno dei morti di nuovo…

[modifica] Proserpina

Prima ancora di salire l'ultimo tratto di scale, giriamo a sinistra dove ci accoglierà Proserpina. La statua ci accoglie a braccia aperte. Proserpina è la versione romana della dea greca Persefone o Kore. La leggenda narra che Proserpina era figlia di Cerere; venne rapita da Plutone, re dell'Ade mentre coglieva i fiori sulle rive del Lago Pergusa presso Enna. Plutone la sposò e divenne regina dell’Ade. Dopo che la madre ebbe chiesto a Zeus di farla liberare, poté ritornare in superficie, a patto che trascorresse sei mesi all'anno ancora con Plutone. Davanti a Proserpina vi è lo stemma degli Orsini, due orsi. Uno porta il blasone, l'altro invece la rosa romana. Ma la visita non è finita: ecco a voi Echidna e Furia. Echidna (“la Vipera”) è un mostro con il corpo di una donna, ma con una coda di serpente al posto delle gambe. Le sue origini sono discordanti: secondo Esiodo sembra essere figlia di Forcide e di Ceto, figli di Ponto e di Gaia (il Flutto del Mare e la Terra). Altre tradizioni la fanno discendere da Tartaro e da Gaia. Di discendenti mostruosi ne ebbe tanti: Ortro, cane di Gerione, Cerbero, l’Idra di Lerna, Chimera, e persino il Drago di Colchide, custode del Vello d’oro. Molti di questi mostri furono sconfitti da Ercole, Bellerofonte e Giasone. Furia è un demone del mondo infernale nelle credenze popolari primitive. Furono assimilate alle Erinni greche: rappresentate come geni alati, i loro capelli sono intrecciati di serpenti e tengono in mano fruste o torce. Fanno impazzire le loro vittime e sono molto vendicative. In mezzo a loro vi sono dei leoni. Essi discendono dalla stirpe di Echidne, e figurano anche negli stemmi di Viterbo, secondo la leggenda fondata da Ercole. Con questo gruppo di sculture legate agli Inferi, la visita alla Villa delle Meraviglie è finita. A questo punto si può percorrere a ritroso il cammino, oppure prendere i sentiero per tornare al cancello d'entrata. Ma a metà sentiero troverete l'accesso al Tempio. Vediamo di che si tratta...

[modifica] Il Tempio (o mausoleo)

Il Tempio, non faceva parte delle meraviglie del luogo, ma fu costruito venti anni dopo in onore della seconda moglie dell'Orsini, che era una principessa Farnese. La famiglia Bettini che ha restaurato il complesso l'ha dedicato in memoria di Tina Severi Bettini, deceduta anche a causa di una contusione durante i lavori di ripristino del parco. All'esterno del tempio (l'interno non è accessibile) vi sono i segni zodiacali.

Questi i segni zodiacali non sono in ordine secondo lo zodiaco (Ariete, Toro, Gemelli, etc), ma si trovano disposti secondo il sistema solare. Infatti l'abside corrisponde al mese di Luglio e del Segno del Leone, governato dal Sole. Poi troviamo il segno del Cancro (con la Luna). Successivamente troviamo gli altri pianeti: Mercurio (che ha domicilio sia in Gemelli che in Vergine), Venere (domiciliata in Toro e Bilancia), Marte (Ariete e Scorpione), Giove (Pesci e Sagittario), Saturno (Acquario e Capricorno). Si può dedurre quindi che chi realizzò questa disposizione aveva cognizioni di astrologia e di astronomia. Tra l’altro la costruzione del Parco delle Meraviglie era iniziata qualche anno dopo la pubblicazione del “De revolutionibus orbium coelestium” di Copernico, dove l’astronomo polacco esponeva la sua tesi della teoria eliocentrica.

[modifica] Angoli di Bomarzo (foto)

Angoli di Bomarzo
Angoli di Bomarzo
Angoli di Bomarzo
Angoli di Bomarzo
Angoli di Bomarzo

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